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Identità, casa, radici, frontiere, partenza, ritorno

di Luisa Castiglioni

All Directions è la mostra inaugurale di Fenix, il nuovo museo d’arte sulle migrazioni sorto sulle banchine di Rotterdam da cui, tra XIX e XX secolo, sono partiti milioni di migranti diretti oltreoceano. Ma è anche, nelle parole della curatrice Hanneke Mantel, “un viaggio nel cuore dell’esperienza umana, dove il tema universale della migrazione è filtrato attraverso lo sguardo dell’arte”. L’esposizione – corale e stratificata – raccoglie oltre 200 opere e oggetti, tra acquisizioni e prestiti, costruendo un racconto che attraversa i confini — fisici, simbolici, emotivi — e li restituisce in sei temi fondamentali: identità, casa, radici, frontiere, partenza, ritorno. Hanneke Mantel ce la racconta.

Come avete definito il concept curatoriale di All Directions e che tipo di narrazione volevate costruire intorno al tema della migrazione?

La mostra presenta 200 opere e oggetti provenienti dalla collezione del museo, integrati da alcuni prestiti. La collezione è stata assemblata negli ultimi cinque anni e continuerà a evolversi. Nell’esposizione le opere sono suddivise in sei nuclei tematici che mostrano come la migrazione sia un fenomeno universale e senza tempo. Riflettiamo su concetti come identità, casa e confini. Gli artisti in mostra provengono da tutto il mondo, tra cui Francis Alÿs, Max Beckmann, Sophie Calle, Honoré Daumier, Jeremy Deller, Rineke Dijkstra, Omar Victor Diop, Shilpa Gupta, Alfredo Jaar, William Kentridge, Kimsooja, Laetitia Ky, Steve McQueen, Adrian Paci, Cornelia Parker, Gordon Parks, Grayson Perry, Ugo Rondinone, Yinka Shonibare, Alfred Stieglitz, Do Ho Suh, Bill Viola e Danh Vō.

Yinka Shonibare, Refugee Astronaut IX, 2024, collezione Fenix. L’opera rappresenta una figura solitaria che fluttua nello spazio, carica dei suoi pochi averi: un astronauta nomade, costretto a cercare un nuovo luogo vitale, ph. Titia Hahne

La mostra unisce opere d’arte, oggetti storici e storie personali. Cosa ha guidato le vostre scelte per una collezione così stratificata e diversificata?

Fenix non è semplicemente un museo: è un viaggio. Un viaggio nel cuore dell’esperienza umana, in cui il tema universale della migrazione è rifratto attraverso la lente dell’arte. Proprio come le storie di migrazione, volevamo che anche la collezione fosse stratificata. Per questo è presentata accanto a oggetti storici legati alla migrazione come una tenda dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, un frammento del Muro di Berlino e un passaporto Nansen del 1923, rilasciato alle persone rimaste apolidi dopo la Prima guerra mondiale.
La nostra sede – un ex magazzino storico trasformato dallo studio MAD Architects, che affaccia sul porto di Rotterdam – rafforza questo viaggio profondamente umano. Da questi moli sono partiti milioni di migranti e ne sono arrivati altrettanti, contribuendo a rendere Rotterdam la città multiculturale e dinamica che è oggi. Abbiamo invitato anche persone con un legame con la città a prestare oggetti personali che raccontassero la propria storia di migrazione, le proprie radici culturali o il percorso fatto per arrivare nei Paesi Bassi. Gli oggetti storici sono curati da Rutger Doop e Abdelkader Benali, quelli personali dalla curatrice Selinay Sucu.

Molte opere riflettono su identità, confini, spostamento e appartenenza. Quali emozioni o domande ricorrenti sono emerse attraverso queste opere?

Ogni artista racconta la propria storia, e ogni storia è unica. Più di cento artisti provenienti da tutto il mondo mostrano cosa significa dire addio, fuggire, cercare la felicità o tornare a casa. Per esempio, in The Boat (2017), Abdalla Al Omari capovolge le dinamiche di potere ritraendo i leader mondiali come persone in fuga su una barca, rivelando l’umanità condivisa che sta dietro alla crisi migratoria. Oppure in Bottari Truck – Migrateurs (2007) Kimsooja carica un camion con teli da imballaggio tradizionali coreani, trasformandoli in un simbolo poetico di movimento e dislocazione.
Nel video Centro di Permanenza Temporanea (2007), Adrian Paci mostra persone bloccate su una scaletta d’aereo: una potente metafora dell’essere “permanentemente temporanei”. E in Refugee Astronaut IX (2024), Yinka Shonibare immagina un astronauta, avvolto in tessuti africani, costretto a fuggire verso altri pianeti a causa della crisi climatica.

Adrian Paci, Centro di Permanenza Temporanea, 2007, collezione Fenix. L’opera mostra un gruppo di migranti in piedi sulla pista di un aeroporto, in attesa di un aereo che non arriverà mai

C’è un’opera che secondo te rappresenta in modo particolare il concetto di “passaggio di confine”?

In Untitled (Gate) (2019), Shilpa Gupta usa un cancello basculante per mettere in discussione l’illusione di confini sicuri. I visitatori si trovano davanti un cancello meccanico residenziale con spuntoni esagerati e una struttura metallica sporgente. Ogni 30 minuti, il cancello colpisce rumorosamente il muro della galleria, fino a creparlo e infine romperlo. L’opera rivela cosa significa un confine per chi ne è escluso: un colpo spietato. Ma mostra anche che ogni muro, prima o poi, crollerà.

Alcuni artisti hanno creato opere appositamente per la mostra. In che modo questi nuovi lavori hanno contribuito al dialogo complessivo?

Siamo stati molto felici di aver potuto commissionare nuove opere. Gli artisti coinvolti hanno rappresentato la loro visione della migrazione, dal locale all’universale, attraverso media diversi: pittura, scultura, fotografia, paesaggi sonori.
Per citarne alcuni: in Exactitudes (2010-2024), Versluis e Uyttenbroek catalogano le comunità migranti di Rotterdam, rivelando identità condivise e differenze. Raquel van Haver ha stratificato trame e storie per omaggiare la comunità capoverdiana di Rotterdam in Luz Brilhante e Cintilante (2023-2025), accompagnata da un soundscape di Ivan Barbosa. In Hands (2021-2023) Beya Gille Gacha utilizza sculture di mani ricoperte di perline per mostrare come i gesti possano colmare le distanze culturali e linguistiche.

Gli oggetti personali donati dai cittadini di Rotterdam svolgono un ruolo centrale nella mostra. Come ha influenzato la narrazione questa partecipazione collettiva?

Gli oggetti personali dialogano con la collezione d’arte, mostrano quanto la migrazione sia diffusa e universale. Per esempio, accanto all’opera The Bus di Red Grooms – una scultura morbida a grandezza naturale che rappresenta un autobus di New York – è esposto un foglio manoscritto del 1977. Il foglio, prestato da Frank Kanhai (Suriname, 1963), è un messaggio scritto per l’autista di un autobus del piccolo comune di Drachten, in Olanda, in cui l’autore chiede di aiutare sua zia, che non parlava olandese, ad arrivare a Rotterdam per comprare prodotti surinamesi. Dopo l’indipendenza del Suriname nel 1975 Frank si trasferì nei Paesi Bassi con la madre e il fratello. Gli fu assegnata una casa a Drachten, e la zia venne a vivere con loro. Quel messaggio lo scrisse per aiutare lei.
Le storie personali sono parte integrante di Fenix, non solo in All Directions ma in tutto il museo. Come The Suitcase Labyrinth, un’installazione composta da 2.000 valigie donate da persone di tutto il mondo, ciascuna con la propria storia. O come la mostra fotografica The Family of Migrants, che raccoglie quasi 200 immagini di 136 fotografi da 55 Paesi, esplorando temi come famiglia, amore, viaggio e separazione.

Red Grooms, The Bus, 1995, collezione Fenix. Si tratta di un autobus a grandezza naturale realizzato interamente in tessuto, ph. Titia Hahne

Fenix si trova in un ex magazzino portuale da cui sono partiti milioni di migranti. Come incide questo luogo sull’esperienza della mostra?

Nel XIX secolo il porto di Rotterdam si espanse rapidamente per rispondere alle nuove esigenze dell’industria e del commercio: navi più grandi, gru meccanizzate, ponti in acciaio. Il quartiere di Katendrecht divenne un centro nevralgico del traffico navale internazionale e residenza di comunità migranti. Qui nacque la prima Chinatown dell’Europa continentale; marinai capoverdiani e musicisti jazz del Suriname si stabilirono qui. Nel corso di due secoli, più di tre milioni di persone sono partite da questi moli per l’altra parte del mondo. Il magazzino che oggi ospita Fenix si trova esattamente nel cuore di questa storia.
È un onore raccontare qui storie di migrazione locali, nazionali e internazionali nel luogo stesso da cui molte di esse sono iniziate. Abbiamo voluto evocare questo senso del luogo anche nell’allestimento: lasciando visibili le pareti in cemento del magazzino, aprendo finestre sulla città e sul fiume Mosa, e con la Tornado, la scala a doppia elica che termina su una piattaforma panoramica con vista su Rotterdam.

Il titolo All Directions suggerisce apertura e movimento. Che tipo di viaggio è stato, per te, questo progetto?

È stato la conferma che la migrazione è universale e riguarda le persone. A Fenix non vogliamo offrire risposte definitive, ma lasciare spazio alle domande. Gli artisti rappresentati pongono interrogativi. E noi vogliamo che i visitatori se ne vadano con pensieri, emozioni, punti di vista propri. Non con una risposta fissa, ma con uno sguardo diverso e personale.

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